Indianapolis

31 janvier 2013

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Affacciata sul futuro come un cieco alla finestra, sono arrivata a Palermo inseguendo un’ipotesi felice.
Ho lasciato la mia città. Il mare, la migrazione dei pesci spada e le feluche nel mese di luglio, Scilla sulla sponda opposta e il transito ininterrotto delle correnti.
Quel paesaggio era fra due mari. Fra due terre: la mia e il resto del mondo. Di fronte la terra ferma come un’altrove da scoprire, come un non ancora.
Lì ho avuto otto, diciotto e ventisei anni. E un marasma di entusiasmi fra i pensieri.
Le gonne le portavo a fiori, l’Università era gremita di impegno, l’occupazione della Facoltà sapeva di svolta verso la vita. Sulle mura del collettivo dipingevamo murales. Figure di donne in divenire. Facevamo autocoscienza e ci pensavamo con la responsabilità di cambiare il mondo. Le sessantottine le ascoltavamo con l’attenzione dei neofiti. Alla fine del mese, dalle nostre tasche rastrellavamo i soldi per l’affitto della sede, a piano terra, come noi rispetto al resto della vita.
Lavorare era importante. Anche per me. Otto ore al giorno e 250mila lire al mese. La metà per pagare la casa. Il resto per fare la spesa. Niente che pesasse sopra le spalle, che fosse più leggero della libertà. Il futuro lo pensavo come un luogo ricco ed accogliente. Lo pensavo altrove, immaginando lo spazio senza confine dell’avvenire.
Quando mi proposero un lavoro a Palermo, risposi subito di sì. Mi chiesero di pensarci prima di decidere. Lo trovai assurdo. Cosa c’era da pensare? Trasferirmi in una grande città mi avrebbe regalato un futuro di sorprese e di meraviglie.
Lasciai mia madre, un lavoro senza colore e un amore difficile.
Arrivai una domenica sera in treno. Un bagaglio rosso e un’inquietudine da esploratore.
Era anche qui, sull’isola, il luogo del non ancora. Non solo oltre lo Stretto.
Alla stazione consultai lo stradario per non perdermi. Imboccai la via Lincoln sino all’Orto Botanico, accanto Villa Giulia. Entrai nel quartiere dove avrei vissuto per un po’: la Kalsa. Mi sembrò che tutto trasudasse storia e fatiscenza. Mi emozionai pensando che qui non c’era stato un 1908. La storia occupava quei luoghi senza cesure. Così pensavo.
Evitai, per il momento, di concentrarmi sulla miseria circostante. Guardai la facciata delle chiese barocche, le bancarelle agli angoli della strada senza riuscire ad omettere dal mio campo visivo l’aspetto pericolante degli edifici. All’altezza di via Alloro, mi aspettavo di vedere automobili e passanti. La trovai transennata. I prospetti decrepiti degli edifici si adagiavano a ponteggi che pareva volessero salvarne la faccia.
A un venditore ambulante domandai del palazzo di Tomasi di Lampedusa. Avrei abitato lì, in un bivani, sopra il portone d’ingresso.

Ogni mattina, a piedi, tentavo di scoprire il fascino dei vicoli stretti come feritoie. Restavano in ombra anche quando il sole invadeva le piazze. Li percorrevo sino a Piazza Marina, costeggiavo la ringhiera di un giardino pubblico, che pubblico poi non era perché rimaneva chiuso a contenere grandi magnolie secolari. Sembrava dimenticato. La ringhiera come un sorriso sdentato.
La sera, di ritorno a casa, alle sette e trenta le saracinesche dei negozi si abbassavano. Tutti sparivano in fretta. Le strade di colpo restavano deserte. Io le attraversavo curiosa di ogni particolare. Piazza Marina era buia. Solo un piccolo ristorante rimandava le sue luci. Io camminavo con la leggerezza di un viaggiatore. Fantasticavo su quei luoghi, li avevo già incontrati nei racconti di Pirandello. Il Foro Italico, la passeggiata delle captive. Mi immaginavo indietro nel tempo, ai primi del Novecento.
Mi mancava il mare, che da lì sembrava essersi ritirato per un sopruso.
Le macerie del vicolo di fronte casa ospitavano panni stesi, luci al neon ed una lingua che somigliava poco al mio dialetto, e trascinava i suoni con lentezza, come volesse sottolineare significati impliciti, con una cadenza prolungata nel tempo, quasi nascondesse un sospetto o una minaccia. Gli sguardi l’accompagnavano come un’insidia.

Due giorni dopo il mio arrivo, andai a fare la spesa al mercato sotto casa. Al fruttivendolo chiesi un chilo di arance e un cavolfiore. Mi guardò per qualche istante, poi chiese A cu appaitiene lei?. A me stessa! risposi con un rigurgito di orgoglio femminista. Gli si dipinse in volto l’espressione sbigottita di chi incontra un pazzo. Cavolofiore ‘un ci ‘nne, disse consegnandomi in gran fretta le arance. Ma sì, è qui. Indicai la cassetta davanti a me. Vroccolo, mi corresse. Lo infilò in un cartoccio e me lo consegnò di corsa. Pagai, orgogliosa della mia risposta, ma con un vago senso di disorientamento.

Quando in ufficio seppero dove abitavo, mi riferirono che proprio lì, nel mio stesso bivani, qualche anno prima vi aveva vissuto Alfonso Madeo. Che sotto quella finestra c’era stato un attentato. Una bomba nella sua auto. Lui era rimasto incolume. Dissero che era un giornalista, che forse aveva curiosato e scritto cose che non doveva. E gli era costato una bomba.

Una mattina, mentre andavo al lavoro, all’altezza della vecchia ringhiera liberty di Villa Garibaldi, sul lato nord, incontrai un amico. Proprio lì era stato ucciso Joe Petrosino, disse. Questa città è piena di posti così, disse. Basta andare in giro per trovare le lapidi più recenti. Degli ultimi ammazzati.
Era il mese di marzo del 1984.
La gente, ormai costretta alla consuetudine della morte, si dava appuntamento dicendo Ci vediamo dove hanno ucciso Mattarella…o Boris Giuliano o Chinnici.
L’Arcivescovo chiamava la città Sagunto.

Una volta, andando ad un appuntamento, chiesi ad un passante dove fosse via Riccardo Wagner. Non esiste, disse. Intanto, alzando gli occhi, vidi l’insegna della strada proprio lì. “Via Richard Wagner” c’era scritto. Dissi Guardi, è qui. Lui lesse l’indicazione, mi guardò con un leggero sarcasmo e mi corresse Ah…la via Vagnèr! Lo ringraziai e me ne andai perplessa.
Con il tempo mi convinsi che Palermo ha la sua lingua. “La lingua”. E può rifare le altre a piacimento. Che non commette errori. Che rivisita le parole senza nutrire dubbi. E riconosce solo se stessa.

Dopo sei mesi, una domenica tornai da Messina con la mia 127. Cominciai ad usarla per andare al lavoro, a Piazza Politeama, a tre chilometri di distanza da casa. La settimana successiva, alla Cala, mentre sostavo ad un semaforo regolato da un vigile urbano, un camion arpionò con il parafango lo sportello sinistro della mia auto. L’autista non si mosse dal posto di guida. Il vigile ostentava uno sguardo vitreo, perso nel nulla. Uscii dallo sportello destro e chiesi al camionista di scendere per discutere della denuncia da presentare all’assicurazione. Chi minchia rici,? rispose. Ingranò la marcia per andarsene impunemente. Mi rivolsi al vigile. Arretrando di qualche passo, disse che non aveva visto nulla. Mafioso, gridai al camionista. Vafanculo, buttana, rincarò, Si non eri fimmina ti fracchiava a lignate. Intanto, il vigile era sparito, gli automobilisti, fermi anch’essi in attesa del verde, si erano rinserrati nelle proprie auto, i finestrini alzati e la sicura. Quando in pochi secondi scattò il verde, sembrò di essere alla linea di partenza di Indianapolis.
Di giorno in giorno, mi resi conto che qui la legge è fuori legge. Ed io apolide. Priva della vista del mare. Attratta come un magnete da un’Indianapolis che non mi appartiene. E non mi lascia andare.