L’ultimo giro di Dabka

21 décembre 2012

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1.

Amira versò il tè nero in due tazze di terracotta e aggiunse del latte prima di correre a svegliare Khalèd.
Il buio della casa le impediva di vedere bene ma era sufficientemente vicina per capire che il fratello dormiva ancora, immobile sul materasso, protetto da una coperta di lana di capra che ricopriva il lenzuolo.
Il piccolo fanus a petrolio illuminava appena i due materassi appoggiati per terra, l’uno di fronte all’altro e le ciabatte di plastica usate ma pulite per bene, avvolte tra la carta di un vecchio giornale, riposte con cura sotto la sedia impagliata. In Iraq si esce sempre con un paio di scarpe di scorta, per saltare rapidi tra le macerie e le carcasse di cadaveri e cani, così da non pensare di potersi ferire.
Quando Khalèd aprì gli occhi abbozzò un sorriso. Pareva non avesse la forza di alcun movimento.
Da qualche mese a Bàssora mancava la luce; i black – out elettrici dilatavano il tempo ma la gente pian piano stava imparando a dormire. Il regime e le forze di opposizione avevano da poco concordato un cessate il fuoco invitando la gente a riprendere le attività, e annunciando un graduale ritorno alla vita normale. Non tutti però riuscivano a varcare il cortile di casa. La repressione imposta dal Raìs di certo non colpiva meno delle granate esplose per strada.
Tutti gli stranieri erano andati via dal Paese e anche l’Ambasciata italiana aveva provveduto a rimpatriare alcuni dei propri cittadini.
Nella Terra dei due fiumi, dove il Paese si stringe nell’imbuto dello ShatAllArab, il fiume dai riflessi d’oro, oltre quei chilometri di strada deserta che digradano lungo il fiume Tigri, sulla riva sinistra, quasi all’improvviso sorge la città di Bàssora. Nessuno qui si fa illusioni ma nessuno lo dà a vedere.
Si vive come se nulla fosse successo o se niente dovesse accadere.
A un anno dalla deposizione del regime, l’alito pesante della guerra in Iraq non lasciava altro spazio che alle macerie. Gli anziani dal tradizionale kamis di lino bianco e le donne, che la legge islamica vuole a capo coperto, si rifiutavano di andare a vivere altrove. Forse perché le case di fango dai tetti di canne sfondate somigliavano ancora alle loro case.
Lungo la strada che dalla periferia conduce al centro di Bàssora, gli scheletri dei palazzi sventrati con le finestre vestite di grate di ferro, stringono vicoli e pozze di fango. I portoni delle case si alternano a lunghi cortili di palme. Da qualche settimana i ribelli avevano ricominciato a devastare le case a colpi di mortaio. A nord di Bàssora avevano saccheggiato un intero quartiere, accoltellando e arraffando denaro. Portando via anche oggetti e abiti femminili. Soltanto la Moschea era stata risparmiata, rimasta lì a illuminare il cemento con la sua cupola d’oro, al fianco dei due minareti. Nel cuore del paese.
A pochi metri dall’antica piazza, tra due brevi cortili di palme, sbucava la casa della famiglia di Amira. Per lei il paese voleva dire le sue origini, il fiume, i proverbi, gli alberi, perfino la tradizionale Dabka. Il suono della danza le piaceva molto. La musica le girava in testa, da quando a marzo l’aveva vista ballare al matrimonio di una cugina. Una danza maschile, ritmica ma armoniosa, ballata nelle occasioni di festa, con il movimento dei piedi battuti (energicamente) con forza per terra.
Amira era rimasta incantata dai giovani danzatori disposti a semicerchio che procedevano in fila, ognuno con la mano destra nella mano dell’altro e la sinistra dietro la schiena. Con quel movimento veloce di gambe che cambiava al variare della musica accompagnata dal suono della darabuka.
Ogni mattina canticchiava la Dabka, mentre aspettava che il fratello finisse di bere il tè nero, dolcissimo e dall’odore pungente di cardamomo.
Sul tavolo di legno incrostato, accanto alla tazza di terracotta alcune volte Amira appoggiava un piccolo kulìche di datteri e pinoli che piaceva tanto a Khalèd.
Ci sono cibi che non valicano mai le frontiere ma che indicano esattamente il luogo in cui ci si trova.
Come il cardamomo o i dolci kulìche che non superano mai l’Oceano.

2.

Rispetto agli altri bambini di cinque anni Khalèd era troppo esile. Gli si poteva contare ogni singolo osso del corpo. La frangia nera e lucida di capelli gli incorniciava l’ovale del viso.
Soffriva di malnutrizione come tanti suoi compagni di scuola. La fame gli si leggeva negli occhi scuri e grandi. Troppo spalancati per essere veri.
Qualche giorno prima un raid aereo aveva distrutto l’unico magazzino di farmaci pediatrici della zona. L’unica vera speranza di potere essere ancora curato.
Bàssora era una città polveriera. Lo sapevano bene i soldati con la bandiera di tela cucita sul braccio destro dei giubbotti imbottiti, incolonnati per chilometri di pietre e sabbia, tra auto in fiamme e fili spinati. Arrancavano aggrappandosi ai carri armati, ma lo stesso in preda alla paura, mossi al ritmo ipnotico di un Paese ubriaco d’oro.
Qui soltanto gli abitanti minimizzano, spinti a volte da una calma apparente. Sognano di proteggere le loro famiglie e lo fanno pregando dentro le Moschee.
Amira per un attimo abbandonò la sua danza; recitò in fretta a memoria la preghiera del mattino che le avevano insegnato a casa.
Era contenta di essere donna. Poteva pregare anche da casa come voleva la legge islamica.
Invocò Hallah. Solo lui ci può proteggere, dicono a scuola. Ci proteggerà se non scordiamo mai la kefiah e la preghiera del mattino. L’altro giorno tornando a casa ho avuto paura. Una fila di carri armati per le strade, soldati ovunque. Io e Khalèd la guerra non la vogliamo.
Mamma dice che serve per un futuro migliore. Al- Hurriya! Per la libertà! – mi ha sussurrato una volta.
Dice che siamo fortunati, non dobbiamo fare i controlli e superare i posti di blocco. Andiamo a piedi alla fermata dell’autobus che ci porta a scuola, facendo attenzione a dove mettiamo i piedi.
Le mine possono esplodere con la sola pressione di un piede.
Khalèd era andato a vestirsi. Ancora un anno a capo libero e poi avrebbe indossato la kefiah.
Amira sistemò con cura il velo hijab, come voleva il Corano, assicurandolo ai lunghi capelli scuri con alcune forcine. L’hijab e la veste lunga fino ai piedi la facevano sentire già donna.
Prima di aprire la porta di casa, corse con Khalèd a salutare il padre. Da un anno rammendava coperte di lana con mamma Jamira; aveva dovuto inventarsi un lavoro da quando un missile lanciato contro un convoglio militare aveva azzerato la fattoria, portandosi via anche metà del braccio di un cugino che l’aiutava nei campi. Coltivava cereali come tanti nel Paese della Mezzaluna, dove gli uomini imparano presto a coltivare la terra, sulle fertili rive del fiume.
Odiava la guerra ma per certi versi aveva smesso di temerla.
Amira si affrettò ad uscire di casa. Prese la mano del fratello per correre più velocemente alla fermata dell’autobus; imboccò una delle viuzze che si ricongiungevano al piccolo piazzale di sosta. Cambiare spesso strada la faceva sentire più sicura. Non le piaceva l’aria che negli ultimi giorni si respirava in paese ma cercava di non fare troppa attenzione ai piccoli rumori, ai movimenti intorno o ai venditori improvvisati di tabacco.
A volte ciò che si prova ad immaginare, rischia soltanto di fare impazzire.
Il sole era già alto. Sembravano esserci migliaia di colori intorno. Bàssora non aveva il solito frastuono perché una calma improvvisa aveva risucchiato ogni cosa.
Due esplosioni violente, una dopo l’altra sventrarono i palazzi vicini. Fecero tremare la terra.
Il boato sordo era arrivato fin dentro le case.
Mamma Jamira lasciò cadere l’ago, chiuse gli occhi e si precipitò per strada. In ciabatte.
Le sirene e la gente che urlava l’avevano preceduta di pochi attimi. La palma del giardino vicino pendeva bruciata. Come l’erba intorno. I pochi metri per la fermata dell’autobus le parvero un viale infinito.
Non era facile orientarsi una fitta nube di fumo e polveri aveva tolto il contorno alle cose.
Jamira cominciò a correre verso la piazza, spinse furiosa la gente disorientata, per passare.
Il rumore assordante dei clacson delle auto rimbombava su tutto. Cadde in ginocchio sull’asfalto ormai dilaniato. Portò le mani al petto. Hallah! ‘Al Hurriya – Libertà’ gridò rivoltando gli occhi.
Svenne.

Aprile 2004. Ambasciata italiana.
Ai bambini di Bassora e a tutti i bambini rimasti uccisi dalla guerra in Iraq.

Marzia Bencivinni – Texte / Text / Testo
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