La morte di Padre Castenzio

20 novembre 2012

Temps de lecture : 7 minutes

1920: HANNO UCCISO PADRE CASTENZIO

Non c’era nessuno in Piazza Matrice, quella sera. Nessuno, perché non c’era che la luce di qualche fanale a gasolio, nelle strade e nelle piazze di Bolognetta. Nessuno, perché tutti o quasi quelli che avevano lavorato in campagna quel giorno, alle undici di sera erano molto stanchi. Nessuno, perché l’indomani dovevano partire da casa per arrivare in campagna prima del sorgere del sole, e perciò era meglio andare a dormire presto…
Il reverendo arciprete Castrenze Ferreri, che tutti chiamavano padre Castenzio, andava a letto tardi dato che in genere si alzava dopo i braccianti e i contadini. Era seduto a prendere il fresco, quella sera di maggio dell’anno 1920, davanti alla canonica, a trenta metri dalla chiesa madre. Gli avevano fatto compagnia Mastro Titta, il calzolaio che ogni tanto giocava con lui a briscola usando come base un piccolo tavolo mezzo sgangherato, e Mariano V. che di lavorare ne mangiava poco e preferiva farsi tre volte al dì il giro del paese scambiando quattro chiacchiere prima col pescivendolo, poi col venditore di aghi e spilli che veniva da Godrano e, la sera, dopo il rosario, con Padre arciprete. Il quale era in paese ormai da dodici anni e conosceva bene Mariano e le sue abitudini: verso le dieci e mezza se ne andava via all’improvviso, ma chiedendo prima la benedizione.
Ora era solo, il parroco, e stava già pensando di ritirarsi per leggere le ultime pagine del breviario, quando suonò la campana dell’orologio del campanile. Undici colpi uno dietro l’altro, col solito ritmo da più di vent’anni, come avveniva quando non era rotto. I fratelli Scibetta di Bisacquino l’avevano costruito nel 1896 e venduto al comune per trecentoventi lire, al tempo del sindaco Lo Brutto, che all’orario ci teneva tanto perché non voleva che i suoi iurnateri arrivassero tardi all’antu.
Furono pochi attimi: un lampo dal vicolo, un rumore assordante, un urlo di Padre Castenzio. Dopo qualche minuto, assicuratisi che non ci fossero pallottole vaganti, uscirono dalle loro case i vicini. Arrivò il sagrestano, Filippo D.P., e la moglie, che cominciò ad urlare “U parrinu, u parrinu ammazzaru!”. Il marciapiedi fu pieno di gente accorsa mezza vestita. Filippo e mastro Matté, il falegname, videro che il parroco, caduto a terra vicino alla porta, respirava ancora. Solo qualche minuto dopo cominciò a lamentarsi e a chiedere aiuto. I due si accorsero che dal petto usciva sangue, prima lentamente, poi in abbondanza. La moglie del sacrestano prima portò un panno per tamponare la ferita al polmone sinistro, poi corse dentro a prendere due lenzuola, con cui quattro uomini sollevarono lentamente il religioso e lo portarono dentro casa, mettendolo a letto, nella stanza accanto alla cucina. Arrivò pure il dottore Machì, giovanissimo, che impallidì a vedere tutto quel sangue.
Padre Castenzio vide che era arrivato il sindaco, Michelangelo D. P., a cui si rivolse subito con gesti accorati, chiedendogli di avvicinarsi al letto. Entrò subito il comandante della regia stazione dei carabinieri, il maresciallo Vittorio D., un abruzzese dai baffi spioventi, che il parroco conosceva bene anche per averlo ogni tanto confessato. Infine entrarono nella stanza quasi contemporaneamente il giovane Carmelino L. B., caporalmaggiore in licenza dalla caserma di Torino dove prestava servizio dopo la fine della guerra mondiale, e “don” Serafino, pregiudicato, capo della cosca mafiosa locale. Davanti a loro, prima che il maresciallo chiedesse qualcosa, il parroco gridò. “L’ho visto, chi mi ha sparato!”. A gesti o a parole, gli chiesero tutti nello stesso momento chi fosse stato, e quello: “Mi ha sparato Luminato, figlio di Giovanni T.” Poi si corresse: ” No, suo cugino Luminato, figlio di Peppino T. Sì, l’ho visto con i miei occhi.”
I presenti rimasero increduli attorno al letto. “Ma come può essere? Un picciotto così educato!” esclamò il sindaco, che conosceva bene quel giovane, poco più che ventenne, bracciante agricolo, figlio di contadini. “E’ stato lui, l’ho visto in faccia, mi ha sparato venendo da dietro il campanile…” E si fermò, perché sentì una fitta al petto molto forte. Cominciò a rancorarsi senza smettere più. Il dottorino si dava da fare, ma capiva che i proiettili avevano colpito anche il cuore, oltre che i polmoni. Fuori la gente aumentava di numero e di parole: la guardia municipale Mariano Z. e il carabiniere Proietti arrivato col maresciallo fermarono quelli che poterono, sostenendo che all’arciprete sarebbe mancata l’aria, con tutti quei curiosi attorno.
Il maresciallo decise allora di andare a casa di Luminato: prese con sé due altri carabinieri, il calabrese e il palermitano, arrivati nel frattempo, e cercò di arrivare nel più breve tempo possibile alla casa del giovane, distante non più di centro metri, sulla via del Notar Monachelli. Uno dei due militari semplici bussò alla porta, gridando: “Aprite!”. Dopo un attimo, la porta di legno si aprì, il padre di Luminato chiese al maresciallo cosa volesse, e poi chiamò il figlio, che si dovette rivestire. Il maresciallo entrò velocemente, andò a cercare negli angoli più riposti della casa, salì sul solaio, sollevò qualche materasso: alla fine trovò un fucile ancora caldo e con forte odore di polvere esplosa. Lo prese e lo portò con sé, stringendolo con forza. Alla luce della lanterna il ragazzo fu ammanettato e portato in caserma senza spiegazioni. Al ritorno dalla missione, il maresciallo si presentò di nuovo al parroco ormai moribondo, gli si avvicinò chinandosi per chiedergli a quattr’occhi se davvero Luminato fosse il suo assassino. E quello ripeté spazientito: “Lui fu, lui fu, ancora ve lo devo dire? Lui fu!”. “Ma che motivo aveva, perché doveva fare questo?” chiese il sindaco. “E’ stato… è stato per l’affare dei marmi” disse con qualche difficoltà. “Per l’altare di sant’Antonino…” Dopo un po’ il medico allargò le braccia rassegnato: il reverendo, che aveva ricevuto l’estrema unzione dal sacrestano e aveva baciato il crocifisso e l’immagine della Sacra famiglia staccata dal capezzale del letto, esalò l’ultimo respiro tra lo sbigottimento degli astanti.
L’indomani arrivarono col carretto da Vicari, paese di origine dell’arciprete, due sorelle, un fratello più grande e uno zio. Tutti gli abitanti del paese vollero vedere il corpo della loro guida spirituale. Aveva cinquantaquattro anni, era un buon parroco, dissero tanti, non aveva fatto male a nessuno. Forse, dissero altri…
Alla fine del funerale, che durò a lungo perché la messa cantata fu concelebrata da tre arcipreti, quello di Marineo, quello di Misilmeri e quello di Cefalà Diana, che fece la predica per ricordare il defunto, molti cittadini andarono a fare le condoglianze ai familiari, quasi tutti sconosciuti ai paesani. Tra gli altri arrivò “don” Serafino che, dopo essersi detto amareggiato per il delitto, spiegò a Stefano Ferreri, fratello maggiore del morto, come lui e altri in paese non credessero che padre Castenzio avesse veramente riconosciuto l’assassino in quel giovane mite, incensurato e noto per la sua laboriosità. Anzi, pensavano che non si potesse riconoscere nessuno. C’era troppo buio, a quell’ora, e il fanale dell’illuminazione a gasolio era troppo lontano, in un altro angolo della piazza. Il fratello rimase perplesso, non seppe cosa dire. A conclusione dell’incontro, il visitatore lo informò che aveva intenzione di fare un esperimento l’indomani sera, alla stessa ora del delitto: fare spuntare una persona dall’angolo della strada per vedere se dalla porta della canonica si potesse vedere in faccia con chiarezza qualcuno che da lì emergesse dall’ombra con un’arma in mano… Il fratello non seppe mai come fosse andato l’esperimento progettato da “don” Serafino.
L’indomani mattina, con il treno delle sette, due militi dell’Arma condussero in catene Luminato T. alla stazione ferroviaria della linea Palermo-Corleone-S.Carlo, distante un chilometro dall’abitato. Presero il treno con destinazione Misilmeri, a otto chilometri. Lo rinchiusero nel carcere mandamentale di quella cittadina, dove il giovane nominò un avvocato difensore, l’avvocato Mirabelli del foro di Palermo, che spesso aveva difeso “don” Serafino in occasione dei suoi precedenti guai con la giustizia.
Il processo cominciò un anno dopo i fatti, nel luglio 1921, e Luminato era ancora detenuto nonostante le ripetute richieste di libertà provvisoria presentate dall’avvocato difensore. La corte penale lesse gli atti delle indagini, ascoltò l’atto di accusa, esaminò i testimoni. Tra essi il maresciallo dei carabinieri, che si confuse non poco, perché in passato aveva sostenuto di essere accorso dopo aver sentito nell’aria due o tre colpi d’arma da fuoco, mentre in tribunale sostenne che qualcuno era andato a bussare alla caserma per avvertirlo dell’accaduto. Il fratello dell’ucciso, Stefano, parlò del coinvolgimento del congiunto nella politica locale, e dei suoi inascoltati consigli, tendenti a far sì che il sacerdote non si facesse troppo coinvolgere dalle polemiche tra seguaci e nemici dell’onorevole Finocchiaro Aprile.
L’avvocato Mirabelli interrogò l’ing. Francesco Starrabba, di professione metereologo: a lui fu chiesto che tipo di luce poteva dare dal cielo la luna la sera del 16 maggio dell’anno prima. Egli, consultate le carte, sentenziò e solennemente affermò che era un periodo di luna calante, perciò in cielo c’era solo un sottile spicchio del satellite naturale, con ridotta possibilità di sconfiggere le tenebre di quella sera di primavera. Venne al banco dei testimoni anche il medico Camillo Romano, originario del paese ma praticante in città, che aveva in cura il parroco. Quest’ultimo, egli disse, era fortemente miope e portava normalmente gli occhiali, quando usciva di casa. Ma c’era un altro particolare: il religioso soffriva di attacchi epilettici, una o due volte l’anno, preferibilmente nelle settimane dei cambi di stagione. In quei momenti critici, egli sostenne con scienza e coscienza, padre Ferreri non riusciva ad essere presente a sé stesso e spesso dava in vaneggiamenti e in affermazioni prive di senso logico. A domanda rispose. “Può darsi che il dolore provocato dai colpi di arma da fuoco abbiano provocato un effetto simile, se non identico, facendogli dire cose che non stanno né in cielo né in terra…” L’avvocato dell’accusa ebbe difficoltà a convincere la corte che nessuna delle persone che soccorsero la vittima nei momenti successivi agli spari avesse parlato di un tale stato confusionale presente nelle parole e nei gesti del ferito, a parte gli alti lamenti dovuti alla sofferenza provocatagli dalle pallottole. Il militare Carmelino L.B., venuto appositamente da Torino, affermò sotto giuramento che il parroco, stando a letto ferito, era stato incerto nell’indicare il presunto sparatore: per questo la domanda sull’identità del colpevole gli fu rivolta più volte dal sindaco, dal maresciallo, da “don” Serafino e da lui stesso.
Ma la prova più forte a carico di Luminato, tutti lo capivano, era quella della canna fumante trovata in casa dell’imputato. I periti del tribunale, esaminato il fucile nelle quaranta ore successive all’efferato delitto, avevano attestato senza dubbio di sorta che quell’arma era stata usata proprio nella notte tra il 16 ed il 17 di maggio.
A questo proposito, su proposta dell’avvocato difensore, nelle ultime sedute del processo, erano stati convocati molti contadini e braccianti di Bolognetta. Arrivarono in gruppo, a volte con figli e moglie al seguito, con il treno detto “suburbano” che partiva alle sei del mattino e arrivava a Sant’Erasmo alle otto meno un quarto. Qualcuno aveva pagato loro il biglietto di andata e ritorno ed anche la giornata. Si presentarono in tribunale per testimoniare. L’avvocato Mirabelli fece chiamare il primo, Salvatore Pantelleria. Dopo aver giurato di dire la verità, tutta la verità, nient’alto che la verità, a domanda rispose: “La mattina del sedici maggio dell’anno scorso, ho visto Giovanni e Luminato T. andare a caccia in contrada Dagariato, nei pressi del fiume Milicia. Sentii tre o quattro spari a metà mattinata, poi altre due attorno a mezzogiorno…”. Mariano Bannò, anche lui coltivatore diretto, fu molto chiaro: “Ricordo con precisione che mercoledì 16 maggio verso le cinque del pomeriggio sentii dei colpi di fucile in contrada Stallone, tra Bolognetta e Villafrati, vicino alla collina di Chiarastella. Dopo un po’ passarono per il viottolo vicino al mio terreno Luminato e il fratello Giovanni, che mi salutarono. Giovanni portava l’arma a tracolla, il fratello due conigli sulle spalle. Salutarono e io risposi al saluto. Con me c’era Pietro Pisello, con cui stavamo lavorando a ripassare la vigna di mia proprietà…”
Nei giorni successivi, ci furono altre sedici o diciassette testimonianze dello stesso tenore. Il 3 agosto la corte del Tribunale penale di Palermo emise la sentenza. Tutte le prove a carico di Luminato T. erano cadute nel corso del processo. I giudici prosciolsero il giovane dall’accusa di omicidio premeditato.
Per non aver commesso il fatto.

Lombino Santo – Texte / Text / Testo
Histoire écrite en italien / Story written in Italian / Storia scritta in italiano